Dopo la settimana di sosta per la Santa Pasqua torniamo a percorrere il nostro ideale tour che ci porta a conoscere un po’ di più le varie discipline sportive soprattutto in funzione del loro apporto e della loro importanza per i giovani. Oggi vi parliamo della Pallanuoto. Le sue origini pare risalgano alle fine del XIX secolo, più precisamente al 1873, quando in Scozia si organizzò, tra ex galeotti, una partita simile al rugby nelle acque del fiume Dee. Tale gara suscitò un grandissimo interesse ed al suo termine venne elaborato un regolamento grazie al quale l’anno successivo fu fatta disputare, a Londra, la prima, effettiva, gara di Pallanuoto. Solo 13 anni dopo un istruttore di nuoto scozzese, William Wilson, ispirandosi al calcio apportò delle sostanziali modifiche al regolamento di cui sopra inserendo sul campo di Pallanuoto due porte così da stabilire che le due squadre non dovessero più riuscire a posizionare la palla in un punto preciso (così com’era fin lì stato) bensì segnare, come nel calcio, nella porta avversaria. Altre modifiche, sempre sullo stile del calcio, fecero sì che lo sport in questione venisse ribattezzato dallo stesso Wilson “Acquatic Football”. Fu cosi che, nel 1888, si disputò il primo campionato ufficiale inglese ed entro il 1900 la Pallanuoto si diffuse in tutto il resto d’Europa: Italia, Germania, Belgio, Francia, Austria ed Ungheria.
Ma bando al passato remoto e trasferiamoci in tempi a noi più prossimi; possiamo senz’altro affermare che la Pallanuoto rappresenta oggi uno degli sport con maggiore “appeal” tra i giovani nonostante in Italia, a 18 anni, meno di 1 adolescente su 3 pratichi qualche attività sportiva o fisica e i tassi di sedentarietà siano da record. Ciò per via del cosiddetto “drop out” (abbandono precoce) che inizia già a 11 anni: a 15 anni meno di un ragazzo su 2 pratica attività sportiva continuativa, a 18 la pratica poco più di uno su 3 e i tassi di sedentarietà nel nostro Paese sono tripli rispetto a quelli delle altre nazioni europee. In pratica dopo la Scuola Primaria i ragazzi italiani cominciano ad allontanarsi dalla pratica sportiva continuativa e ingrossano le fila dei sedentari Ma bando ai cenni statistici: la Pallanuoto rappresenta una importantissima disciplina di squadra, per quelli che sono i suoi aspetti relativi al beneficio fisico, caratteriale e sociale dei quali i suoi atleti possono godere. Sappiamo bene, ormai, che tutti gli sport di squadra contribuiscano proprio alla formazione caratteriale del giovane, alla concezione del raggiungimento di un obiettivo grazie al contributo di tutti, alla necessità di doversi adoperare ciascuno con le proprie qualità e caratteristiche per l’ottenimento di quei traguardi ambiti dalla squadra stessa.
La Pallanuoto è uno tra gli sport acquatici più duri; diventare un giocatore o una giocatrice di Pallanuoto vuol dire saper soffrire, saper combattere, saper lottare per formarsi prima e per mantenersi poi su certi livelli di preparazione fisica e tecnica.
Giusto per dare un’idea di quanto questa disciplina sia “tosta” ricordiamo che è diffusa l’opinione degli addetti ai lavori che in una partita di Pallanuoto si giochino, in realtà, 2 gare:
una, visibile, fuori dall’acqua ed una, invisibile al pubblico, sotto l’acqua ed è proprio per soddisfare queste necessità che gli atleti devono riuscire a raggiungere una preparazione fisica ottimale, spesso superiore alla media degli altri sport di squadra. Ortigia (con 35 partecipazioni), Catania (con 18 partecipazioni) e TeLiMar Palermo (con 9 partecipazioni) rappresentano, ad oggi, le società siciliane che possono vantare una maggiore presenza nel massimo campionato Italiano anche se, in questo momento le uniche 2 società siciliane partecipanti al campionato di A1 maschile sono proprio l’Ortigia ed il TeLiMar Palermo mentre, per ciò che concerne il settore femminile l’unica presenza siciliana in A1 è quella dell’Orizzonte Catania assoluta primatista di scudetti nazionali vinti con 20 tricolori al suo attivo.
Scrivono. Fiumi di parole. Da quasi
dieci anni. E lo fanno ovunque sia possibile, un tempo in strada, al parco, al
museo, oggi online, Covid permettendo.
Sono quelli del Newbookclub Community
Lab, associazione di promozione sociale nata dal desiderio semplice di
incontrare persone che amano scrivere e lo fanno insieme, condividendo
pensieri e emozioni.
L’idea è di Alessio Castiglione,
pedagogista originario di Brancaccio, presidente e fondatore di
Newbookclub Community Lab che nel 2012 lancia un’idea agli innamorati della
parola: “Hai voglia di scrivere? Scegliamo un tema, ci scriviamo su e poi ne
discutiamo insieme”.
Una biro, un foglio di carta, un
appuntamento. That’s it.
Vuoi il passaparola, vuoi il potere di
parole e scrittura, gli incontri targati Newbookclub diventano virali e si
moltiplicano. Tanto da permettere a Newbookclub, nel gennaio di quest’anno, di
diventare associazione riconosciuta e accreditata.
–
Alessio ma non si è sempre detto che la scrittura è un atto solitario? Un
dialogo intimo con se stessi? Ai vostri <Laboratori di Scrittura di
Comunità> chi scrive, poi legge agli altri. L’ascolto è uno step chiave dei
vostri incontri. Quanta voglia c’è di conoscere l’altro? Ѐ davvero la
condivisione l’ingrediente del successo di Newbookclub?
“A diciotto anni questa idea confesso
che mi sembrava davvero qualcosa per pochi, una passione difficile da
condividere. La scrittura ha una forte cultura (non natura) solipsistica. Ci
hanno abituati a pensare gli scrittori come chiusi in se stessi o nelle loro
camere o chissà in quale galassia lontana da noi. Invece chi scrive ama stare
anche in mezzo alla gente e alle cose per assorbirne l’energia e farsi
trasportare da innumerevoli stimoli che la strada o un cielo aperto può
indubbiamente darti. Il giornale Repubblica ci ha chiamati cacciatori di
parole, probabilmente siamo più dei raccoglitori. La parola caccia rimanda a
un’immagine troppo forte, noi siamo più miti. Abbiamo inondato le strade con
fiumi di racconti, ma nonostante questo siamo sempre stati silenziosi lì a
scrivere ora in una scalinata ora in un parco o in mezzo ad una piazza. Appena
ci vedi ti rendi conto che è possibile scrivere insieme. Stiamo provando a
cambiare alcuni paradigmi affibbiati alla scrittura; per noi: non è per pochi
ma per molti, non può essere sviluppata solo in solitudine ma anche in
comunità. Umanamente provato”.
–
Le parole servono a spiegare il mondo. Quasi sempre. Ci raccontano e
raccontano il momento in cui viviamo. Quali sono le parole che, più di altre,
emergono e si ripetono in questo periodo? “Ultimamente domande come questa sono
alla base dei social data analysis, uningegnoso
sistema informatico che crede di sapere tutto di noi attraverso i dati che
lasciamo sul web. In parte queste analisi rivelano delle parole che
esplicitiamo e ripetiamo attraverso i social network. Ma
non tutto ciò che condividiamo, pubblichiamo, scriviamo su queste piattaforme
risulta essere la nostra vita e i nostri pensieri più profondi (in realtà quasi
mai). Un sistema che investe sulla superficie non potrà mai uguagliare le
potenzialità insite negli strumenti della narrazione. In particolare TikTok,
Twitter, Instagram, Whatsapp stanno contribuendo molto alla morte della parola
scritta e detta. Tutto si circoscrive in brevi video o immagini con poche e
limitate battute che dicono poco di chi siamo e vogliamo rivelare, il like che arriva è anch’esso poco meditato. La
scrittura invece ti obbliga a pensare le parole migliori, a trovare le giuste
immagini mentali a guardarsi dentro più che a guardare fuori. È un esercizio
difficile che spaventa e che stiamo perdendo anche a causa di questa evoluzione
tecnologica che regredisce il linguaggio. Per non esserne vittime ho pochi
semplici consigli: curare un sé digitale fatto di smartphone, tablet, smart tv
e un sé analogico fatto ancora di quaderni di carta, libri, penne, diari segreti,
colori e matite. Non possiamo abbandonarci ad un’unica strada. Le parole non
devono essere ridotte a trend topic o hashtag, ai nostri laboratori ne trovi davvero
tante ed è un piacere ascoltarle e scoprirne di nuove. Anche per questo motivo
provo a non darti risposte brevi, almeno fin quando ci sarà qualcuno disposto
ad ascoltarci e leggerci senza distrarsi facilmente”.
–
Alle attività del Newbookclub partecipano persone di ogni età, tutti
<portatori di narrazione> come amate dire. Come si fa a mettere insieme
pensieri, sogni, delusioni e amarezze, così tante sfumature di generazioni
diverse?
“Per noi non c’è cosa più semplice di
dare spazio e tempo di parola a tutti. Forse ce ne siamo dimenticati
guardando reality show o talk show, dove non si parla davvero e soprattutto non
ci si ascolta. In questo la metodologia del laboratorio ci è congeniale perché
ci aiuta a scandire bene i tempi che articolano i nostri incontri di Scrittura
di Comunità. Si svolge tutto principalmente in tre fasi: accoglienza con
consigli di lettura, momento di scrittura libera su stimoli/temi narrativi
della giornata, momento di lettura con ascolto profondo e condivisione. Ognuno
di questi momenti permette ai partecipanti di non vivere una gerarchia di ascolto,
non c’è un vero e proprio turno; si entra in discussione non appena c’è
silenzio senza accavallarsi né sentirsi un passo indietro a nessuno. Grazie
alla conduzione orizzontale degli Starter (organizzatori e gestori
dell’associazione del Newbookclub community lab) l’incontro si svolge con una
libertà di partecipazione totale. Nel momento più importante della lettura si
viene scelti, anche per essere facilitati a condividere il proprio scritto.
Questo passaggio tra parola scritta e parola letta non è mai facile, però il
nostro metodo in maniera molto delicata ti invita a partecipare e a scoprirti
insieme a noi. Una delle magie che ne viene fuori è che tutti alla fine leggono
e nessuno si è sentito inascoltato. Un momento raro di pura socialità dove alla
fine nessuno si è sentito sfidato, ha perso o vinto. Non è una gara, non è un
corso; è un momento e uno spazio di parola intenzionali che abbiamo collaudato
grazie all’esperienza ormai decennale e ai nostri studi”.
–
In che modo un momento ludico, di incontro, può anche essere terapeutico e
persino di promozione sociale?
“La scrittura è sempre terapeutica, è
una delle sue qualità più antiche. Ogni uomo e donna, ragazzo e ragazza,
bambino e bambina, in scrittura possono esprimere una parte di sé, una semplice
informazione o un pezzo complesso della loro storia personale. In questo la
scrittura ci aiuta a tracciare la nostra vita, a prendere coscienza del
passato, del presente e talvolta ad immaginare il futuro. Anche quando
giochiamo con le parole, scriviamo una poesia o un racconto, stiamo esprimendo
una preziosa parte di noi. Agli incontri del Newbookclub succede proprio
questo: ognuno estrae un pezzo del proprio essere e lo inserisce nel mosaico
delle storie degli altri. Quello che ne esce fuori è un’opera d’arte sempre
diversa e sempre inaspettata fatta di storie diverse che si intrecciano e danno
vita ad un grande disegno. Riusciamo a scrivere su un unico tema ma vedendone
sempre sfaccettature alternative. Come ognuno di noi è diverso anche la nostra
scrittura ci aiuta ad identificare qual è il nostro pensiero rispetto a quella
cosa, quel tema, quello stimolo di scrittura. Questo che facciamo è un gioco
molto serio dove vengono fuori esperienze, creatività, ispirazioni, fantasmi,
oracoli, antenati, oroscopi, credenze, paure, desideri, ironia, sogni, incubi,
dei: tutti insieme. Alla fine dell’incontro ci si sente pieni e svuotati allo
stesso tempo. È promozione sociale perché è un’attività che non può prescindere
dalle persone; anche se ultimamente stanno producendo libri elaborati da
intelligenze artificiali sperimentali, la creatività non potrà essere mai
essere replicata da un computer. Almeno questa lasciamola a chi è fatto di
carne ed ossa, mente e cuore”.
–
Ripetete spesso “preferibilmente carta e penna”. Sembra anacronistico. Fa
pensare a un tempo che è andato. Al Newbookclub siete invece nativi digitali
per lo più. Perché questa scelta?
“Siamo giovani, ma non così giovani! Il
nostro range di età è esteso, va dai 18 ai 75 anni. C’è
una forte presenza giovanile ma che appartiene ancora a quella fascia di
popolazione che conosce o ha voluto conoscere il mondo prima di Internet. Siamo
dei nostalgici e questa conversione online da pandemia inizialmente ci
preoccupava. Invece, nonostante tablet e monitor, l’attitudine e lo spirito dei newbooker (gli
scrittori di comunità del Newbookclub) non è cambiata. Questo ci ha fatto
capire che potevamo credere in un Newbookclub fatto di dispositivi tecnologici
e domande come “mi sentite? Mi vedete? Non ho capito bene, potete ripetere?”. A
parte queste divertenti quanto avvilenti discontinuità da DAD, siamo contenti
di aver trasportato i nostri incontri online per amore di continuare… coscienti
e desiderosi di un incontro dal vivo. Ma che sia in presenza o a distanza,
l’invito che facciamo sempre è di non abbandonare carta e penna perché anche
solo la scelta di questi materiali dà il via al rituale della scrittura. Avere
i propri quaderni e penne preferiti ti fa sentire la scrittura fra le mani,
diventa forma materica del pensiero e della fantasia: un piccolo antichissimo
miracolo della storia umana.
–
Il piacere sottile della parola, la ricerca di un ritmo, il suono e la forma di
lettere in movimento. Chi scrive non può farne a meno e vi si legge in faccia
guardando le immagini dei vostri incontri. Hanno tutte in comune la stessa
passione, che siate comodamente seduti al bar o in bilico su marciapiedi e
scalini in strada. Il dover ricorrere allo streaming ha tolto qualcosa?
“In questo i nostri incontri vengono in
soccorso per ciò che credevamo di aver perso. Non potendoci vedere eravamo
demoralizzati all’idea di stare in un rettangolo di schermo senza poterci
toccare. Invece ci siamo ricreduti fin dal primo incontro online. Lo sguardo e
l’ascolto dei partecipanti non era diverso, è rimasto attento e ispirato.
Questo ci ha rincuorati molto, abbiamo gradualmente apprezzato la versione
online perché regala inaspettate soddisfazioni. Tra i punti di forza:
innanzitutto ha avvicinato persone nuove e da tutta Italia; possiamo scrivere
comodi nelle nostre stanze senza il rischio del contagio; prestiamo molta
attenzione ai volti collegati in primo piano; possiamo commentare i testi in
diretta nella sezione chat (cosa molto bella che ci diverte e fa sentire tutti
ascoltati nell’immediato); abbiamo un bel ritmo e tanta richiesta. I Newbooker
hanno espressamente voluto almeno un incontro a settimana. Questa per noi soci
fondatori è una grandissima e commovente soddisfazione. Ad ogni incontro
realizzo che questa passione non apparteneva solo al me-ragazzo di dieci anni
fa, adesso ci sono tante persone che insieme a me credono in questo progetto
diventato associazione; e che domani potrà ancora evolvere grazie al contributo
di tutti”.
–
Sogni e progetti di Alessio Castiglione e del Newbookclub Community Lab APS.
“Molti stanno provando a fare uscire
fuori cosa abbiamo in mente di realizzare in futuro. Ma dobbiamo ancora tenervi
sulle spine perché crediamo molto nelle cose fatte bene e nei tempi giusti. Non
vogliamo affrettare i nostri sogni, sono tutti lì in attesa di essere
realizzati nel momento più opportuno. Sono felice di comunicarvi che ogni starter:
Gaia Garofalo, Simone Napoli, Margherita Chinnici, Morena Famà, Nazareno
Inzerillo e Andrea Lentini, si stanno formando per intensificare le loro
competenze. Vogliamo essere un servizio reale per la città e per la nostra
comunità, e servono non solo le idee ma anche le capacità per realizzare azioni
di successo. Non vogliamo nulla che sia improvvisato. Anche se sembra tutto
molto fluido e giovanile, ogni cosa che facciamo è negoziata, meditata e
giustificata in teoria e prassi dalle nostre conoscenze. Il mio sogno personale
è che il Newbookclub Community Lab APS possa continuare all’infinito a
prescindere da me e dai miei attuali soci, deve essere una realtà senza
scadenza che si evolve con il tempo e grazie alle persone che ne fanno parte:
quelle di oggi, quelle che se ne andranno e quelle che arriveranno domani”.
–
Ultima domanda a chi come te di parole si nutre. “Mi piace chi sceglie con cura
le parole da non dire”. Cito Alda Merini per chiederti se la parola sia sempre
necessaria e non se ne faccia a volte oggi abuso. Quali sono le parole che
sarebbe meglio non dire secondo te Alessio?
“Avrei voluto dirne ancora di più e vi
ringrazio con tutto il cuore per l’intervista, perché mi permettete di dirle
finalmente queste parole che mi navigano in testa. Penso e vi scrivo che di
parole ci sarà sempre bisogno. Un bisogno primario, offuscato da tanti stimoli
che non riusciamo più a gestire. Ma Il principio era il Verbo, e il
Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Ecco penso, a
prescindere dal proprio credo, che non ci sia Dio più grande della Parola, e
anche quelle da non dire dovrebbero essere dette: purché siano vere”.
Un grazie sincero a Alessio Castiglione per questa intervista. E per averci ricordato che le idee migliori, quelle che vincono, sono quelle che mettono <noi> al centro. Sono anche quelle che restano.
Tra gli sport di ultimissima generazione annoveriamo quest’oggi il Padel, una disciplina sportiva a tutti gli effetti nonostante in tanti continuino semplicisticamente a considerarla solo “un gioco”.
Nato nei primissimi anni ‘90 ad opera del messicano Enrique Corcuera che, volendo costruirsi in casa un campo da tennis, si ritrovò a dover fare i conti con due pareti non previste sul progetto e dovette includerle nella struttura dando vita, involontariamente, al primo campo di Padel, salvo poi volerlo sfruttare appieno inventando anche il primo regolamento dedicato a questa nuova disciplina.
Il Padel trovò grandissimo interesse in origine tra i paesi dell’America latina, in particolar modo in Argentina nella quale, dopo il calcio, divenne una sorta di sport nazionale, mentre, per quel che riguarda i paesi europei, grandissima eco si ebbe in Spagna.
Fu proprio dal paese iberico che il Padel venne importato per la prima volta in Italia nel lontano 1991 divenendo, negli ultimi 5 anni anche nel nostro paese, sport molto ma molto diffuso fino a rappresentare una temibilissima alternativa sia all’antenato Tennis, sia al Calcio a 5 (volgarmente denominato Calcetto) oltre a lasciar registrare un esponenziale incremento di impianti di gioco pari ad una percentuale di circa il 1200% con oltre 830 strutture e più di 1860 campi sul nostro territorio nazionale.
Tantissime le strutture nate con destinazione d’uso “Campi di calcio e calcetto” adeguate ad impianti misti se non totalmente dedite al nuovo fenomeno sportivo proprio in virtù di un business assolutamente più appetito ed appetibile in specialmodo nell’ultimo triennio.
Notevole spinta verso la pratica del Padel è giunta involontariamente dai “Lockdown” causati dal “Covid 19” a partire dalla primavera del 2020 allorquando la prima tranche di strutture sportive a poter riaprire non annoverò i campi di calcio e di calcetto ritenuti causa di assembramento e di contatto bensì quelli da Padel, limitati nella composizione delle squadre a 2 persone per squadra, quindi consentiti.
Sempre durante il lockdown, l’eguaglianza: “Libertà=Jogging=Bicicletta=Padel” divenne in quattro e quattr’otto di larghissimo uso anche tra coloro i quali non avevano mai messo un piede sul sintetico che ne rimasero tanto divertiti ed appassionati fino a farne importante mezzo di benessere fisico, di distrazione e di sfogo personale, un’ora e mezza di “aria pura” in mezzo a giornate dense di cattive notizie e quindi di stress e di tensione.
Non stiamo lì a girarci troppo intorno: come abbiamo già scritto, il Padel è chiaramente un cugino del più nobile Tennis ma le sue regole sono in larga parte abbastanza differenti dal congiunto; diverse sono infatti le dimensioni del campo, la sua stessa forma, la racchetta, il modo di battere, l’utilizzo delle sponde nonché la tattica, la tecnica di parecchi colpi all’apparenza molto simili… tutto quel che ha, in pratica, reso il Padel disciplina accessibile praticamente a tutti, molto divertente e coinvolgente. A tal proposito negli ultimi anni è sorta la forte volontà da parte dei vertici federali di istituire categorie dedicate ai giovani e quindi campionati Under 14, 16 e 18 giusto per far sì che il Padel possa iniziare a far presa anche sui nostri figli e/o nipoti.
Ritenuto fondamentale dai tecnici addetti ai lavori è proprio l’approccio dei giovani in virtù del mantenimento così elevato dell’interesse che gira, al momento, intorno a questo sport: in pratica, così come in tantissimi altri aspetti della nostra vita il futuro del Padel è innegabilmente in mano ai giovani.
La nostra passeggiata in giro tra le varie discipline sportive da
“raccontare” soprattutto ai più giovani prosegue con grande entusiasmo e questa
settimana si ferma in cima ad uno sport molto affascinante, duro ma anche
tanto, tanto intrigante: il Beach Volley e per parlarvene al meglio abbiamo
coinvolto una tra le più grandi giocatrici italiane di ogni tempo nonché una
“top twenty” del ranking mondiale di qualche anno fa, 3 Campionati del Mondo
giocati, 4 Finali dei Campionati Europei oltre ai 3 Scudetti nazionali ed agli
innumerevoli tornei nazionali ed internazionali vinti: parlo di Giulia Momoli
da Asolo (TV), oggi anche apprezzata e stimata Mental Coach
Giulia inizia così a parlarci dello sport che l’ha accompagnata lungo
quasi tutto il proprio percorso di vita: “La mia passione per il Beach Volley
nasce un po’ per caso, quando, già pallavolista, una mia amica mi chiese di
andare a giocare un torneo di qualificazione del campionato italiano e mi
innamorai di questo sport. Di lì a poco arrivò una convocazione in nazionale e
capii che il “Beach” mi appassionava tantissimo, che mi piaceva da matti: per
coltivare il sogno olimpico capii che avrei potuto mettere in discussione anche
la pallavolo che tanto amavo e così feci”. L’esperienza di Giulia inizia a prenderci
e così proseguiamo chiedendole quando si rese conto che avrebbe potuto
diventare una vera campionessa di Beach Volley: “In realtà non lo capisci
perché pensi solo a lavorare tanto. Ho sempre creduto molto nel lavoro, nel mio
staff, nello staff della Nazionale. Pensavo che prima o poi i risultati
sarebbero potuti arrivare anche se non puoi mai averne la certezza perché in
questa disciplina ti devi relazionare con una serie impressionante di
variabili, tantissimi cambiamenti; anche solo il fatto che si gioca in due la
dice lunga su quanto sia impegnativo gestire la squadra ed essere all’altezza
assicurando sempre un buon rendimento. I risultati sono poi arrivati davvero ma
sono stati il frutto di tanto duro lavoro, di tanto allenamento”.
“Il Beach Volley – continua Giulia – mi ha aiutato a diventare responsabile, a capire come ci si deve allenare, come diventare il primo, miglior allenatore di se stessi. Si tratta di uno sport a 360 gradi che richiede molta applicazione sia in campo che fuori. Rispetto alla pallavolo il Beach mi ha dato quel qualcosa in più: una diversa maturità, una “centratura” diversa, un’autonomia, un’indipendenza… Ho imparato tantissimo anche dalle sconfitte e dalle esperienze dolorose. Sento dentro me che il Beach Volley mi ha fatto crescere tanto non solo come atleta ma anche come donna, come persona”.
E’ a questo punto che ci sentiamo quasi in dovere di pensare ai più piccoli e chiediamo a Giulia: “Per quali valori ti sentiresti di consigliare il Beach Volley ai ragazzini?”. Lei ci risponde così: “Si tratta di uno sport bello, completo, che ti insegna a toccare la palla da tutte le prospettive. E’ uno sport “aperto” perché ha tante variabili, tante interferenze e quindi richiede di allenare tantissimo la flessibilità e lo spirito di adattamento. E’ anche uno sport di grande responsabilità quindi devi avere la testa sulle spalle, devi sapere che di fronte alle difficoltà ne devi uscire, per te e per la tua squadra e ne devi uscire prevalentemente da solo perché quando un avversario “ti punta” non hai via di scampo, quindi credo che ciò sia molto educativo e formativo; è un bellissimo gioco, una bellissima filosofia di cui innamorarsi”. Il dubbio che uno sport non sia sufficientemente “supportato”, però, ci attanaglia: “Il movimento del Beach Volley è in crescita senza dubbio – afferma Giulia Momoli – ma ritengo che logisticamente gli sforzi fin qui compiuti non siano ancora sufficienti perché è, comunque, molto difficile che un atleta, oggi, decida di dedicarsi completamente al Beach Volley perché è difficile che riesca, da solo, a crescere a tal punto da andare a competere con le squadre più forti del mondo, all’estero. Se guardiamo, infatti, al campo “extranazionale” non possiamo non notare che negli ultimi anni ci sono state davvero pochissime coppie che hanno avuto il coraggio di intraprendere questo cammino, un cammino molto dispendioso economicamente (quando non sei ancora nel giro della Nazionale) ma che richiede anche tanta autodisciplina perché non hai nessuno che ti dice cosa devi fare ma sei tu che devi imparare a gestirti, che devi “schedulare” insieme al tuo allenatore e al tuo preparatore tutto il lavoro da fare, sei tu insieme al tuo compagno a dover scegliere quali tornei andare a fare, quando partire e quanto allenarti…
Insomma: è tutto molto impegnativo; non sei un dipendente; nel “Beach”
non hai un cartellino da timbrare ma non puoi neanche dire, un giorno: “Okay,
oggi mi sono allenato… Tutto a posto: vado a casa”. Dietro c’è un grande
lavoro, una grande passione per uno sport che spesso richiede anche degli
“extra”. Per tutto ciò credo che ancora oggi si faccia parecchia fatica: per
una questione di mentalità ci stanno ancora pochi atleti disposti a questi
grandi sacrifici di fronte a sport certamente “più comodi”.
”. Io so di aver fatto una scelta che mi ha consentito di vivere un
sogno, che mi ha dato un senso, un significato e un’importanza che mi hanno
fatto sperimentare l’amore per la competizione, la condivisione, un’altalena di
emozioni incredibili ed indimenticabili, durante le quali mi sono anche trovata
con le spalle al muro ma che, anche per questo, mi hanno fatto forgiare…”.
Giulia è un
fiume in piena di esperienze personali, di emozioni, di sensazioni che fa
fatica a contenere. Sentirla parlare è splendido perché dalle sue parole vien
fuori tutto l’amore per lo sport, per questo sport così unico da aver impresso
nella sua vita come un marchio di fabbrica un pallone, una canottiera, un paio
di occhiali, la sabbia, il sole… Perché ognuno può riuscire a vivere il proprio
sogno… Bisogna solo crederci e lavorare tanto duramente per ottenerlo.
Proseguiamo
il nostro pellegrinaggio attorno alle discipline sportive ed oggi parliamo di
“Kickboxing”.
Nasce intorno ai primi anni ’70 ma, in particolare, la sua origine viene individuata nel 1974, anno del suo primo campionato mondiale, sotto la vecchia denominazione: “Karate Contact”. Era stata denominata così dopo che un americano (Mike Anderson) ed un oriundo ameri-coreano (Joohn Rhee) avevano deciso di modificare alcune regole del classico Karate inserendovi le protezioni (quindi non più mani e piedi nudi) e permettendo il contatto fisico… Da qui: “Karate Contact” e poi “Kickboxing”. Il nostro ospite odierno è il pluricampione Tony Cardella, già 7 volte campione italiano, per 3 anni di seguito vincitore della Coppa Europa di “Point Fighting” (Semi Contact) nonché vincitore anche di 4 titoli mondiali “Veterans”, quindi prima over 35 e poi over 40. “Il mio incontro con la Kickboxing fu del tutto casuale – inizia a raccontarci – Andavo in palestra con dei miei amici per fare un po’ di movimento quando vedemmo un gruppetto di persone allenarsi in maniera strana indossando coloratissimi scarpette e guanti.
Due di
loro mi dissero: “Proviamoci” ma io non ne ero troppo convinto visto
che fin lì non mi ero mai interessato alle arti marziali. Tuttavia decisi di
provare e scoprii che la cosa mi affascinava e poi… che ero anche bravino,
infatti dopo un po’ i miei amici mollarono mentre io continuai. Dopo 4 mesi
vinsi la mia prima gara regionale: vittoria che rappresentó la scintilla che mi
fece capire di poter dire la mia”. L’inizio di questa storia personale
assume grande spessore, grande interesse. Tony continua: “Tutte le Arti
Marziali danno sicurezza in sé stessi e cognizione dei propri mezzi da un punto di vista mentale mentre da un punto di vista fisico
rappresentano un’attività completa per preparazione atletica ed agonismo ed
un’occasione di profonda conoscenza con le proprie caratteristiche ed i propri
limiti. E poi la Kickboxing ti dà la possibilità di sviluppare tante doti
perché ha svariati stili di combattimento: da quello a punti (molto veloce) a
quello che prevede pieno contatto: il classico “KO” per
intenderci”. Tantissimi anni di attività tra ring ed insegnamento
significano anche tanti avversari e tantissimi allievi: “Oltre alle
soddisfazioni personali effimere che possono giungere da un titolo di uno sport
cosiddetto “minore”, quelle più belle rappresentano la certezza di
aver potuto vedere dei ragazzini di 12-13 anni cresciuti con me laurearsi
campioni del mondo o direttori tecnici di nazionali di paesi esteri ma non
solo: partendo dalla frequenza dei miei corsi ho avuto tanti ragazzi che si sono
appassionati così tanto al mondo dello sport da essersi, poi, affermati in una
carriera scolastico-universitaria o lavorativa dettate da questa passione. Tra
i miei ex ragazzi più d’uno si è laureato in scienze motorie, un altro è un
affermato osteopata palermitano e così via.
Sentirmi
dire, oggi, “Maestro, se non ti avessi incontrato oggi non sarei ciò che
sono” è una cosa che mi riempie di gioia più dei titoli vinti da
ragazzo”. Ma – chiedo a Tony – se volessi convincermi a portare in
Accademia da te mia figlia, cosa mi diresti? “Ti direi che la Kickboxing è
una disciplina molto divertente per i bambini. Nulla è mai stato più falso
della semplicistica considerazione che gli sport di contatto o le arti marziali
siano degli sport violenti. Lavoro con tantissimi bambini che credo non si
annoino mai: un giorno lavoriamo sulla velocità, un giorno sull’equilibrio, un
giorno sulle tecniche di braccia ed uno su quelle di gambe… Poi c’è il
combattimento, visto inizialmente come una sorta di “Muffa 21” nel
quale si deve toccare il compagno o rubargli il nastrino postogli sulla cintura
dei pantaloni. Ancor di più, per una femminuccia, potrei dirti che ho sempre
sostenuto che sapersi difendere anche solo da una carezza sul viso non voluta,
male non faccia.
Ho cresciuto
con grande soddisfazione intere generazioni di uomini che oggi, da papà, mi
portano i propri piccoli dicendomi: “Vorrei che l’esperienza che ho
vissuto io possa viverla anche lui/lei”. Da un punto di vista mentale la
Kickboxing accresce l’autostima del giovane oltre che la presa di coscienza
delle proprie capacità. Si tratta di uno sport individuale ma allo stesso tempo
di uno sport di squadra perché il team diviene una grande famiglia nella quale,
come sostengo sempre “Vince uno, vinciamo tutti!”… E a buon
intenditor… Poche parole, caro Tony!!
Molti pensano che il primo regalo ricevuto nella propria vita sia stato un pallone o forse preferiscono pensarlo non memori che molto spesso, invece, il primo regalo ricevuto da un bimbo sia stata una bicicletta o magari un triciclo, di certo un mezzo a pedali. Ed è proprio partendo da questa considerazione che oggi vi propongo un bell’excursus con @Angelo Minì, segretario dell’ASD MONTEPELLEGRINO SPECIAL TEAM, neonata associazione sportiva dedita alle attività in bicicletta proprio a partire dai primi anni di vita di un bimbo fino ad arrivare ai più maturi. “Un po’ di tempo fa la concezione che si aveva della bicicletta era che questa fosse un mezzo per anziani ma con il passare degli anni si è arrivati, oggi, a considerare il ciclismo (sia esso da corsa o da arrampicata) uno sport sano, divertente, appassionante, capace di metterti in relazione con te stesso e con il territorio a te circostante ed è bello veder iscriversi tra noi anche tanti giovani e tante donne”.
Angelo, una passione per le due ruote nata forse in un’età non proprio
verdissima (40 anni) ma che è andata sviluppandosi esponenzialmente fino a
divenire vero e proprio amore. “Seguivo il ciclismo in tv – ci racconta –
ma il mio sport era il calcio, disciplina per la quale avevo fatto il giocatore,
l’allenatore ed anche il dirigente di società. Oggi, a 47 anni sono fiero della
scelta che ho compiuto perché il ciclismo mi ha aiutato a crescere ed a
conoscere meglio me stesso”. Chiediamo ad Angelo quale sia la
caratteristica più importante che il ciclismo possa rappresentare per un
giovane che iniziasse ad approcciarsi a questo sport: “La bici è fatica. –
ci spiega Angelo Minì – È testa, cuore e carattere. Quando sei in bici puoi
riuscire a capire subito chi ti trovi di fronte studiando la mentalità del tuo avversario,
capendo al volo se questo sia un tipo tosto, forte. E poi il ciclismo è un modo
sano per valorizzare e conoscere al meglio il territorio che ci circonda
osservandolo da un punto di vista completamente diverso rispetto a quello
dell’automobilista o dello stesso motociclista e godendo e appieno della sua
bellezza”. Ma cerchiamo di conoscere meglio questa realtà e chiediamo al
nostro ospite qualche notizia in più relativamente alla società per la quale fa
il segretario: “In Asd Montepellegrino contiamo già oltre 55 iscritti ed
uno tra questi è un disabile che utilizza una “Handbike”, un
particolare tipo di bici utilizzato da persone che non possono gareggiare
pedalando con le gambe. L’exploit di questo sport è stato favorito dal primo lockdown
dovuto al Covid, un particolare momento storico in cui, per via delle
fortissime limitazioni alle palestre, tantissima gente ha virato verso sella e
manubrio acquistando per sé e per i propri familiari una bicicletta per potersi
muovere all’aperto, nel più totale rispetto delle norme anti Covid.
È importante dire anche che negli ultimi tempi è stata incentivata
l’abilitazione a “Maestro di Mountain Bike” con la conseguente
nascita di svariate Associazioni come la nostra che promuovono e valorizzano il
ciclismo in generale (ritengo che corsa e mountain, in fin dei conti, non siano
poi così diverse tra loro anche se mi pare di percepire che i più giovani siano
un po’ più attratti dalla seconda)”…
Ed è proprio a proposito dei più giovani che chiedo ad Angelo quali siano le nozioni trasmesse ai 15 giovani iscritti all’Asd Montepellegrino Special Team dagli istruttori: “Si studiano la mobilità in bici, le posture a bordo, i princìpi fondamentali che regolano il ciclismo, i percorsi e tanto, tanto altro”. Ci congediamo cosi dal nostro primo ospite de “I giovani e lo sport” che ringraziamo per averci dato una grossa mano nel capire e far capire qualcosa in più sul ciclismo, romantica disciplina sportiva che forse, chissà, grazie proprio alla passione dei nostri figli riuscirà a ritrovare antichi fascino, seguito e passione .
Giunti agli anni ’90 il concetto della preparazione fisica inizia un processo di mutazione fino ad arrivare ad un’idea molto prossima a quella odierna e cioè del culto del fisico oltre che di accettazione sociale viste le crescenti pressioni esercitate dal nuovo palcoscenico socio-economico sul modo di vivere dei giovani. Dalle rare palestre in città e men che meno nei paesi si passa, in breve tempo, all’apertura pressoché esponenziale a numerosissime palestre sempre più performanti, sempre più somiglianti a veri e propri centri estetici per il benessere psico-fisico.
Parallelamente, nei centri urbani si sviluppano sempre più numerosi circoli, associazioni e società sportive, scuole ed accademie inerenti gli sport più popolari (il calcio, il volley, il basket, l’atletica leggera, il tennis, il fitness, la ginnastica artistica, il nuoto, la pallanuoto, il ciclismo) fino a quelli più di nicchia (scherma, lotta, pallamano, pattinaggio, ping-pong, equitazione, golf e quant’altro) o fino alla popolarissima new entry dei nostri giorni: il gettonatissimo “Padel” o “Paddle” che, proveniente dalla Spagna, solo da qualche anno ha sottratto tempo e interesse, in Italia, perfino ad uno sport enormemente popolare come il Calcetto (o Calcio a 5).
Questa rubrica trova fondamento proprio nella necessità, oltre che nella voglia odierna dei giovani, di far sport ma anche nel cambiamento culturale ancora in atto utile ad aver indirizzato anche noi genitori verso la consapevolezza che un figlio vicino allo sport fin da bambino sarà quasi certamente un figlio più forte nel fisico e nella mente, un ragazzo più consapevole dei propri mezzi fisici, un giovane maggiormente pronto e aperto nei rapporti sociali e nei rapporti di amicizia, un elemento maggiormente disponibile alla disciplina, alla consapevolezza che gli obiettivi nella vita, come nello sport, possono essere raggiunti solo dopo i giusti sacrifici e la opportuna volontà di raggiungerli.
Lo sportivo è, generalmente, un giovane che si conosce meglio, che si stima, che si concede la possibilità di sbagliare e poi di riprovare, che ha imparato ben presto che nella vita quotidiana, come nello sport, potrà trovarsi ad aver a che fare con gente di ogni estrazione, levatura morale, carattere, preferenze e storia ma che in qualsiasi caso dovrà porsi con chiunque tra costoro in maniera aperta e costruttiva. Ma, andando un passo avanti: quali sono gli sport più gettonati e come si propongono di agire sui nostri figli o forse anche su noi stessi in relazione ad essi? Ci vedremo settimanalmente per sviscerare insieme questo meraviglioso mondo.
Vicepresidente e co-fondatore dell’associazione South Working – Lavorare dal Sud. Una chance per migliorare lavoro e qualità della vita al e dal Sud. E non solo
Trasferirsi all’estero per realizzare
un progetto di lavoro. Spostarsi in un’altra città per trovare opportunità che
siano il naturale sviluppo di attitudini, professionalità, esperienza.
Ci siamo abituati. Lo
sappiamo. Al Sud in tanti hanno fatto e
continuano a fare la valigia per accedere a un contesto lavorativo moderno e
internazionale.
Oppure no.
Potrebbe esserci un’altra via.
Una via delineatasi per necessità
con l’arrivo del Covid-19, che ci ha obbligato a scegliere una soluzione altra.
Lavoro agile, smart working, chiamatelo come vi pare, in Sicilia e al Sud in
generale South Working, please.
Un’evoluzione del concetto di
smart working in un progetto a lungo termine con grandi potenzialità per il
futuro.
L’idea è di un gruppo di palermitani – ma non solo – tra cui Elena Militello, ricercatrice presso l’Università di Messina, e Mario Mirabile, consulente nell’ambito delle trasformazioni urbane in chiave ESG per clienti all’estero e in Italia, e di tanti altri come loro, giovani cittadini del mondo.
Sono ormai 53 i volontari che
attivamente collaborano con l’associazione South Working – Lavorare dal Sud,
con il supporto della Fondazione Con il Sud e della rete Global Shapers –
Palermo Hub, per promuovere il lavoro agile dal Sud e – ove possibile – dalle
aree interne italiane, ma “più in
generale da dove si desidera“, dato che il “Sud è relativo, siamo
tutti il Sud di qualcun altro”.
Dottor Mirabile, South Working tra
le sue azioni mira anche a un’indagine specifica del mondo del lavoro agile e
ad aspetti ad esso correlati, grazie all’Osservatorio del South Working di cui
è responsabile. Lo fa con un dialogo costante con i lavoratori, le aziende, le
Istituzioni. L’Osservatorio studia il territorio ed evidenzia nuove
prospettive. Ad oggi, ritiene che l’Italia sia pronta per una rivoluzione del
genere?
Stiamo studiando
parecchio per rispondere a tutte le domande che ci poniamo. Sicuramente
l’Italia non era pronta ad affrontare tutto ciò che sta accadendo, ma non
possiamo fare altro che guardare avanti. In fondo, abbiamo superato quella
retorica dell’utopia del lavoro dal Sud proprio a partire dal primo lockdown. La
tecnologia, la pandemia, la necessità e la convenienza economica del lavoro
agile in forma ibrida permettono di avviare questo cambiamento per un futuro
del lavoro migliore. Bisognerà cambiare cultura aziendale a prescindere e avere
un approccio concreto che guardi alla realtà sociale, culturale ed economica.
Il lavoro da
remoto consente di vivere il proprio tempo in maniera più flessibile, ridurre
le spese, scegliere il luogo dove lavorare. Luogo che spesso coincide con la
terra d’origine e gli affetti più cari ma che può essere scelto anche in base
ad un proprio stile di vita. Che il lavoro da remoto migliori la qualità della
vita del lavoratore e che in tanti lo applicherebbero, è innegabile. Ma perché
le aziende dovrebbero supportarlo?
C’è anche
chi sceglie di trasferirsi in un luogo al Sud diverso dal luogo di origine, ma
riguarda un numero ristretto di persone privilegiate. Per quanto riguarda le
aziende, i vantaggi sono evidenti: riduzione dei costi delle sedi fisiche;
maggiori risultati in termini di produttività del dipendente; (per alcune)
riduzione dei costi accessori del lavoro; maggiore flessibilità della gestione
degli orari di lavoro; oltre che la possibilità dell’azienda di ridurre gli oneri
per gli immobili strumentali.
Sono tante le
aziende remote-friendly che, riducendo le postazioni, rimodulano e ripensano
gli spazi liberi, affittandoli ad altre realtà di servizi.
E da un punto
di vista lavorativo?
L’analisi
effettuata sino a questo momento indica un aumento della produttività che si
attesta intorno al 10-15%. Le aziende lo sanno e da anni mirano a soluzioni più
elastiche e dinamiche. Fastweb ha detto addio al cartellino ad inizio febbraio,
Microsoft Italia lo aveva già fatto nel 2011, Siemens Italia nel 2018. Si pensa
a benefit e coupon per chi sceglie lo smart working da utilizzare in assenza di
servizi aziendali. Per non parlare della Pubblica Amministrazione che, se ben
organizzata, potrebbe godere di grandi benefici dal lavoro agile.
Mi faccia capire meglio. Di che
si tratta?
La pandemia ha creato delle narrazioni diverse
dalla realtà, falsificando il modello del lavoro agile che fa riferimento alla
Legge 81/2017. Abbiamo operato secondo un modello di telelavoro emergenziale,
che è tutt’altra cosa. Il nostro compito è quello di lavorare per stimolare una
visione più ampia, seguendo i dettami della Costituzione all’art. 119 e del
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, artt. 174-178. Per una maggiore
coesione economica, sociale e territoriale sarà fondamentale valutare l’impatto
della presenza dei lavoratori sui territori, ma anche la loro produttività. Si
rendono, secondo me, indispensabili gli spazi di lavoro condivisi (coworking e
altri anche non tradizionali), capaci di fornire servizi e potenziare – o
quanto meno facilitare – il proprio lavoro all’interno di una comunità di
riferimento, fungendo da vera e propria infrastruttura sociale e permettendo la
nascita di nuove imprese sui territori. L’accesso ai servizi degli spazi di
coworking potrebbe anche essere coperto dall’azienda per cui si lavora. Sarà ulteriormente
fondamentale considerare questi luoghi “presidi di comunità”, come mi piace
chiamarli. Questi sono spazi di coworking, biblioteche, community hub, spazi
pubblici di condivisione e socialità, che possano essere intesi come dei veri e
propri luoghi di partecipazione dal basso, collaborazione, innovazione e
dialogo intergenerazionale per le comunità locali (nuove e preesistenti).
Attraverso la mappatura partecipata tutti possono contribuire a rendere più
forti le comunità che il COVID-19 ha indebolito. Me ne sto occupando, insieme
ad altri specialisti provenienti da diversi campi, nell’ambito del progetto
“Geocoding communities” di cui sono responsabile.
La Pubblica Amministrazione, a tal riguardo, potrebbe giocare un ruolo chiave per la disponibilità di spazi dismessi o sottoutilizzati su tutto il territorio e in modo capillare che potrebbero essere utilizzare da privati o soprattutto da impiegati della PA che si muovono nel perimetro nazionale, lavorando da dove desiderano.
È un progetto ad ampio raggio. I
protagonisti chiamati a partecipare sono davvero tanti.
Non
potrebbe essere altrimenti. Il nostro lavoro di indagine sul territorio ci impone
interlocutori diversi, tutti protagonisti assoluti. Associazioni, singoli lavoratori, istituzioni.
Ed è per questo che ci muoviamo su piani diversi, tutti essenziali. Spesso si
pensa che il progetto portato avanti da South Working preveda uno spostamento
fisico del South Worker da nord verso sud. È così nella maggior parte dei casi
ma non è detto: un lavoratore può ad esempio preferire il piccolo centro alla
grande città nel medesimo spazio geografico. In entrambi i casi è necessario
che il territorio supporti il lavoratore nella sua scelta, mettendo a
disposizione dei servizi.
Ad oggi è possibile una scelta di
questo tipo in Italia? Penso ai piccoli centri a cui accennava, all’assenza di
infrastrutture. Persino ad un fenomeno di digital divide, per nulla
anacronistico. Abbiamo tutti (o quasi) uno smartphone e una connessione
internet, ma non basta se pensiamo a cosa realmente è necessario per garantire
efficienza e velocità nel mondo del lavoro. Prendiamo ad esempio la DAD: la
didattica a distanza ha posto l’attenzione sulle criticità per un pubblico in
fondo giovane di alunni, genitori e insegnanti spalmato su tutto il territorio
nazionale.
Le istanze
che portiamo avanti con l’idea di South Working richiedono dei prerequisiti di
base (connessione minimo 20 Mbps, soluzioni di mobilità che permettano di
raggiungere i poli strategici entro due ore dalla località in questione e
attivare “presidi di comunità”, come descritti in precedenza, anche con la
collaborazione delle realtà associative e imprenditoriali locali. Per capire
dove questi elementi sono garantiti allo stato attuale, all’interno
dell’Osservatorio del South Working, stiamo conducendo un lavoro di mappatura
del territorio italiano, in collaborazione con il Dipartimento MEMOTEF dell’Università
La Sapienza, con il quale abbiamo firmato una convenzione recentemente.
Facciamo un passo indietro.
Parlava di un incremento della produttività lavorativa che può raggiungere il 10-15%.
Dati alla mano, funziona allo stesso modo per i dipendenti pubblici o serve
solo a facilitare la vita ai «furbetti del cartellino»?
Quello che
mi sento di suggerire è che il modello di organizzazione del lavoro dello smart working, o lavoro agile,
potrebbe funzionare in maniera efficace anche per la Pubblica Amministrazione. Pure
in questo caso, l’emergenza ha evidenziato carenze e priorità che dipendono in
parte dalla forma emergenziale adottata, viste soprattutto le difficoltà di
recarsi in spazi di lavoro condiviso a causa dell’emergenza. Sarà necessario
affrontare un processo di digitalizzazione rapido, sicuro, sostenibile ed
esteso a tutta la PA. Sembra che anche il governo nazionale voglia lavorare in
questa direzione, vedremo. Noi ci saremo per sostenere tale processo, per un
futuro del lavoro migliore per tutti, da dove si desidera.
Si ringrazia il dott. Mirabile e
tutto il team South Working – Lavorare dal Sud per l’alta professionalità e
l’estrema disponibilità.
Il rapporto tra i giovani e lo sport rappresenta quanto di più interessante si possa concepire in chi non sia solitamente vicino a questo binomio, per ciò che concerne lo sviluppo fisico, mentale e sociale dei ragazzi stessi, argomento che ci sta particolarmente a cuore visto che siamo spesso immersi nelle nostre dimensioni di genitori, allenatori o docenti. E’ forse un concetto fin troppo scontato che lo sport, sia esso di squadra o individuale, contribuisca in modo netto e deciso alla formazione e/o alla definizione caratteriale prima, fisica e sociale poi, di ogni bambino o ragazzino che sia, ma in che modo? Analizziamo:
In origine le attività sportive venivano considerate solo un mezzo utile a fortificare i ragazzi e, di conseguenza, a renderli più idonei alle attività legate alla sussistenza: la caccia, il lavoro nei campi, la ricerca del cibo e delle migliori condizioni di vita;
Nel tempo lo sport venne ritenuto fondamentale come vera e propria preparazione fisica dei soldati (anche molto giovani) prossimi ad andare in guerra, più o meno come un vero e proprio ritiro pre-campionato dei nostri giorni. Non a caso, nientedimeno che dall’antica Roma deriva il noto detto “Mens sana in corpore sano”, legato a doppio filo proprio all’importanza attribuita già da allora alle attività sportive;
Ulteriore sviluppo fu l’attività sportiva con finalità ludiche e di preparazione a spettacoli danzanti o delle arti dei “mimi”, ad esempio, fino d arrivare ad un’epoca più prossima ai nostri giorni, laddove lo sport iniziò ad esser considerato una vera e propria risorsa cui poter far ricorso per irrobustire i giovani con particolari carenze fisiche;
Oggi la pratica sportiva nasconde molto spesso oltre alle normali aspettative di benessere fisico anche velleità estetiche, quindi, relative ad un periodo storico denso di notevoli cambiamenti sociali un po’ per tutta la popolazione, quantomeno occidentale. L’appuntamento con la seconda puntata di “SPORT…IVAN…MENTE” è a mercoledì prossimo con un ulteriore approfondimento orientato un po’ di più sui nostri giorni. A presto… Ivan Trigona
A casa Siciliando ci piace
accogliere chi racconta e ama la Sicilia almeno quanto noi. Ci piace
condividere le storie di chi promuove il bello e si prodiga perché, come un
virus buono, cresca e si diffonda.
Come la storia di Lavinia
Sposito, Valentina Margiotta, Eleonora Reina e Giusi Passamonte, artigiane e
artiste siciliane che hanno aperto bottega in via IV Aprile a Palermo, nello
storico quartiere Kalsa, iniettando nuova energia con i colori e i materiali
della tradizione siciliana: ceramiche, abiti e accessori con un valore
aggiunto, quello dell’artigianalità e dell’handmade.
Un’energia che si percepisce
forte lungo tutta la via che si è rapidamente trasformata in luogo di incontro,
d’arte e di cultura, regalandole un nome nuovo, Borgo Strafalé.
Lì dove un tempo vivevano
le<strafalarie>, le figure femminili a loro ispirate dell’artista Antonio
Fester Nuccio, morbide ed ammiccanti, danno identità al Borgo rievocandone la
storia; allegre cassate in ceramica nascondono golosa frutta martorana che
arriva dal chiostro di Santa Caterina d’Alessandria; Teste di Moro e Pigne ben
auguranti si alternano a preziose riproduzioni di maioliche settecentesche di
scuola siciliana e amalfitana.
Su alcune fanno capolino i fiori
e le forme del Liberty di Basile a Palermo, eleganti e sinuosi come gli abiti
che svolazzano alla brezza che arriva da Piazza Marina ad un capo di via IV
Aprile.
All’altro c’è la Gancia, poco
distante Palazzo Abatellis e via Alloro, la Sicilia dei grandi palazzi e dei
musei che a Borgo Strafalè si declina nella creatività e manualità di artisti
che lo rendono un luogo unico, autentico.
E dato che qui, un tempo, si
produceva e vendeva lo zucchero, di dolcezza e di Sicilia si continua a narrare
nella cioccolateria Lorenzo, dirimpettaia alle botteghe.
Con una fetta di torta, Palermo è
ancora più bella.
Non potevano che essere immagini
della nostra Sicilia, <perle> della nostra terra che Siciliando ha scelto
per accompagnarvi nel 2021.
Perle che Siciliando dedica al
mondo del teatro, fucina d’arte e di bellezza. Con i protagonisti del mondo del
teatro presenti sul territorio avremmo voluto presentare e raccontare
l’edizione 2021 ma le attuali condizioni di prudenza ci hanno costretto a
rinviare l’evento. Lo faremo virtualmente: ogni immagine, ogni angolo di
Sicilia che abbiamo scelto per il 2021, sarà legata a uno dei teatri con cui
collaboriamo e che da sempre fa cultura in Sicilia.
Il calendario Siciliando edizione 2021 ha un costo di 10
euro a titolo di contributo e a supporto del gruppo e potrà essere prenotato
scrivendo a SiciliandoStyle@gmail.com. Presenti altresì due punti dove
trovarlo a Palermo: presso la libreria Spazio Cultura di Nicola Macaione, in
via Marchese di Villabianca n.102 o presso Edicolè, in via dei Nebrodi
24.
Siciliando inaugura la stagione autunnale dei tour in
Sicilia e lo fa con Villa Pottino, splendido esempio di stile Liberty a
Palermo, residenza dell’illustre Marchesa Maria Concetta Giaconia, vedova
Pottino, scomparsa all’età di 101 anni nel 2013, figura femminile tenace e di
spessore, segretaria all’Eiar, prima che diventasse Rai.
La sua storia, strettamente legata a quella della villa,
diventerà racconto nel racconto e si trasformerà in spettacolo grazie al
prezioso cameo dell’attrice Stefania Blandeburgo.
Segreti e aneddoti di un’affascinante famiglia ma anche
momenti di relax nell’immenso giardino di piante assai rare e, alla fine, un
tocco di dolcezza.
Costo della tour dedicato ai nostri associati 15 euro.
Per info e prenotazioni potete scrivere alla
mail SiciliandoStyle@gmail.com o tramite whatsApp Siciliando al
numero 3661332786.
La visita alla villa avverrà nel rispetto delle disposizione
anti Covid 19. Ѐ pertanto obbligatorio l’uso della mascherina che ogni
visitatore dovrà portare al seguito.
L’Associazione SiciliandoStyle declina ogni responsabilità
in merito alle conseguenze derivanti dal mancato rispetto delle osservanze
sopra evidenziate.
Siciliando e l’Orto Botanico di Palermo. Si riparte Orto Botanico -Palermo Sabato 13 giugno 2020 A partire dalle ore 09.00
Siciliando è pronta a ripartire con un nuovo itinerario all’interno dell’Orto Botanico di Palermo per scoprirne bellezza e storia. La passione e la voglia di raccontare la Sicilia sono le stesse di sempre, le modalità saranno invece nel pieno rispetto che la nuova fase post Covid 19 impone. La visita dell’Orto Botanico sarà effettuata con un percorso ben delineato in più gruppi, ciascuno composto da 14 persone. Il costo della visita, che prevede la presenza di un accompagnatore e guida narrante, è di euro 8.50 ed è riservata agli associati di Siciliando. Per partecipare o ricevere ulteriori informazioni si prega di inviare una mail all’indirizzo SiciliandoStyle@gmail.com o un messaggio al numero WhatsApp dedicato 3661332786
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