
L’incontro con Maria Guccione non era stato programmato – un regalo giunto in dono grazie a una cara amica, Francesca Cannavò, che ci ha fatto conoscere – e ritrovarsi a chiacchierare con una delle voci più significative e rappresentative dell’arcipelago delle Egadi è oltremodo emozionante.

Sono tante le domande che vorresti fare a una tipa tosta come lei: fine conoscitrice della tradizione egadina, assessore alla cultura, strenuo combattente per la difesa dell’ambiente. Fu proprio lei a battersi affinché, negli anni ottanta, si fermassero le trivellazioni dell’Eni per la ricerca di idrocarburi e a lottare contro ogni omologazione e cementificazione selvaggia affinché l’arcipelago mantenesse la sua identità.
“Non lo feci da sola. Quelli furono anni eccezionali. Forse non ne hai memoria, sei troppo giovane, ma fu in quegli anni che partì per la prima volta la <Settimana delle Egadi> grazie alla cultura e alla capacità programmatica dell’allora Direttore dell’Ente Provinciale del Turismo a Trapani, Nino Allegra. Per le Egadi sognavamo un futuro di bellezza e di recupero e valorizzazione della storia delle isole. Nino Allegra parlava di sostenibilità già 40 anni fa, pensa.
Furono gli anni in cui a Favignana arrivò Elisha Linder, l’archeologo subacqueo che aveva recuperato il rostro di una nave da combattimento al largo di Athlit e i resti di una nave databile al 400 a.C.di fronte la spiaggia di Ma’agan Mikhael; Honor Frost, l’archeologa che curò lo scavo della nave punica a largo di isola Lunga nella Laguna dello Stagnone, oggi custodita a Marsala; Gin Racheli, l’autrice del volume <Egadi Mare e Vita> della Mursia editore e ideatrice delle idee più geniali come l’università del mare, la scuola di vela…
In quel periodo Sebastiano Tusa, grazie alle ancore rinvenute a largo di Levanzo da Cecè Paladino, grande subacqueo palermitano nonché figlio adottivo di Vincenzo Florio, capì che era lì che bisognava approfondire per capire dove aveva avuto luogo la prima guerra punica, la Battaglia delle Egadi del 241 a.C.
Si comprese l’importanza della ricostruzione storica per dare identità e trama al racconto <isole Egadi>. Pensa all’Antiquarium all’interno dell’ex Stabilimento Florio, ai magnifici rostri riemersi dal mare…

E nel frattempo venne lanciata l’idea dell’area marina protetta, il cui status arrivò poi nel 1991”.
– E che mi dice dell’ex Stabilimento Florio, splendido museo interattivo e della sua apertura al pubblico? So che anche quella fu una bella battaglia…
“Mi sono battuta come un leone, credimi, dando calci negli stinchi al Sindaco, venuto a Palermo con me, che poveretto non voleva accollarsi la mole di responsabilità che l’Assessorato voleva mettere in capo all’Amministrazione. E quei calci ancora me li rinfaccia! A restauro concluso io, assessore alla cultura, feci la guerra a Palermo perché venisse aperto al pubblico. Garantii persino il servizio di guida: <Lo faccio io”, dissi e così feci per un lungo periodo. Poi iniziai il percorso per istruire altre guide che presero il mio posto. Puntai i piedi: <Io da qui non me vado finché non la vinco>. Non potevo permettere che Favignana rinunciasse ad un’occasione del genere. Vedi, lo Stabilimento Florio non era una semplice fabbrica, nulla di più distante dall’idea di catena di montaggio. Chi ci lavorava considerava questo lavoro come parte della propria vita”.
“Un’anima comune”, aggiunge Francesca.
“Esatto, un’anima comune, hai detto bene, un termine perfetto perché si condivideva tutto, ci si sentiva parte integrante di quell’attività e pertanto se ne era responsabile. Conosci la sala Torino all’interno dell’ex Stabilimento? É un’installazione eccezionale di un amico architetto, Renato Alongi che, grazie al racconto di chi viveva quest’anima comune, ne è riuscito a far rivivere pensieri, idee, emozioni, ricreando un mondo che non c’è più e preservandone la memoria. I video sono stati realizzati negli anni precedenti all’apertura perché Alongi ha avuto l’intelligenza di andare a cercare persone che oggi non ci sono più. Se lo volessimo fare oggi non lo potremmo più fare. Capisci perché mi arrabbio quando non se ne ha cura? Alcuni degli ologrammi non funzionano al momento. Passo poi per la rompiscatole, è ovvio…”.
– Maria, quante parti ha il tonno?
La mia domanda non è casuale perché le battaglie di Maria sono passate anche attraverso la tavola. Giovane donna, già insegnante, eredita con la sorella Giovanna il ristorante albergo dei genitori. Decide di lanciarsi in questa ardita avventura e trasforma la sua cucina in qualcosa che non si limita a saziare e riempire lo stomaco. Il cibo diventa racconto del territorio. Oggi Maria è considerata una raffinata conoscitrice della cucina egadina.

“Ne ha una trentina, più di trenta stalli, o meglio tagli. Ciascuno diverso. Prendi ad esempio la <buzzunaglia> che è una parte di scarto: il padrone la regalava agli operai che la facevano sott’olio e la lavoravano così bene da diventare un ottimo cibo.
Il ristorante mi ha regalato un contatto privilegiato con l’isola e con gli abitanti. Sai cosa chiedevano nei ristoranti negli anni 60? Pollo arrosto e bistecca alla Fiorentina, si voleva dimenticare la fame della guerra. Io pensavo al nostro pesce meraviglioso che a me piaceva e ho cominciato ad imporlo. Venivano e dicevo loro:<mi dispiace, oggi non ne ho carne ma ti faccio mangiare uno <scurmu lardiato> meraviglioso”. <Scurmu>, lo sgombro, <lardiato> è intraducibile. Prepari dell’aglio pestato, ci metti della cipolla appena passata in padella con dell’aceto e dello zucchero, mescoli tutto e lo butti sullo sgombro…

Abbiamo pensato alla ristorazione non solo come a un mezzo per soddisfare fame, gusto e piacere. La chiave del nostro successo era la convivialità. Pochi piatti, ben confezionati e legati al territorio e il rapporto con il cliente. Il cliente si accomodava e io gli raccontavo il piatto e la sua storia, senza essere né didascalica né didattica, magari con l’aria di fare una battuta. É una pasta con le sarde? Il finocchietto è stato colto al Bue Marino, tra maggio e aprile quando è più tenero e poi sbollentato e surgelato per averlo tutta l’estate. Se c’è il finocchietto c’è il Bue Marino. E se c’è il Bue Marino c’è un’isola che ha vissuto il periodo punico, quello romano, ha visto il nascere del Bagno delle Donne con le tessere e i mosaici. Allora diventava un momento di scambio culturale dove il cliente gustava il piatto e si arricchiva ulteriormente al di là del piacere di mangiare. E se lo ricordava, non lo dimenticava più.
Tornando al tonno, qui a Favignana è quasi un animale sacro. Pensa alla Madonna delle Tre Croci, l’opera di Elio Marchegiani, una Madonna che tiene tra le braccia un tonno come se fosse un bambino, il simbolo della vita, la vita che questi animali danno alla comunità, l’unica attività per Favignana insieme all’estrazione della pietra.
E ai canti dei pescatori che in realtà sono preghiere: “Ajamola Ajamola Gesu Cristu cu li Santi e lu Santu Salvaturi tu criasti luna e suli” – tu hai creato il sole e la luna – non ti ricorda San Francesco?. “Tu creasti tanta gente creasti i pisci a mari, i tunni e li tunnare. Prumetti i non mancari” – prometti che ci darai una buona stagione – “Chistu Diu n’avi aiutari e purtari in salvamentu arbu ri mari e in puppa lu ventu, un gran portu sottoventu pi putirini ancurari” – un porto al riparo per poter ancorare …”.
– Dove ha imparato a cucinare?
“Mia nonna e mia madre erano ottime cuoche. Durante la guerra animali non ce n’erano – gli uomini erano tutti in guerra, si mangiava pesce. Ricordo che c’erano uno, due vecchietti che andavano a pescare. Spesso mia madre si tirava su la gonna e andava ai Calamoni. C’erano poche alghe sugli scogli e tante attinie che mia madre raccoglieva con il cucchiaio. Le puliva, una per una, perché la parte callosa del celenterato attaccata allo scoglio trattiene la sabbia. Le risciacquava sotto l’acqua corrente e le sbollentava. Dopo di che uovo, farina e via, nell’olio a friggere”.
“Mare in bocca, le ricordo ancora. Le attinie di Maria erano indimenticabili” – aggiunge Francesca.
“Oggi le attinie sono difficili da trovare. A riva non le trovi più. Inoltre per essere servite devono avere la tracciabilità come le patelle e i ricci… è diventato tutto molto più complicato. Però ciò non toglie che non si possa aprire una scuola di cucina, magari dentro l’ex Stabilimento alla quale aderiscano le madri di famiglia e dove si possa apprendere l’utilizzo di prodotti che stanno sparendo, prodotti che meritano invece attenzione. L’anno scorso abbiamo ideato una quattro giorni durante il festival Florio dedicata a una serie di ricette. Il pubblico era felice anche se, devo ammettere, sono il sole e il vento di Favignana a dare un risultato unico ai prodotti. Il cappero di Cala Rossa assorbe gli aromi che l’aria porta”.
– Maria, da donna è stato più difficile?

“No, non per me. Ho un carattere molto forte. Io nella mia vita per alcune cose mi sono imposta e papà mi è stato d’esempio. É stato confinato a Favignana perché antifascista e una volta libero ha condotto la prima battaglia sindacale sull’isola per la riduzione dell’orario di lavoro degli operai dello stabilimento. Lavoravano 12 ore al giorno e allora ottennero, mi pare, 9 ore il che era una cosa stratosferica, parlo del ’52, ’53. Io ero una ragazzina di 13, 14 anni e mi ricordo che mio padre riceveva a Favignana tutti questi personaggi importanti, il segretario della CGIL…”.
“Maria è stata allieva di Mattarella e di Falcone, lo sapevi? – mi chiede Francesca.
“Nel 1973, dopo quasi vent’anni che avevo ereditato, decisi di ristrutturare l’albergo. Nel frattempo continuavo a dare lezioni private ma ero stanca, in cerca di nuovi stimoli, mi sembrare di ripetere sempre le stesse cose. Così, alla tenera età di 37 anni, approfittai dello stop di due anni per la ristrutturazione e decisi di iscrivermi alla Libera Università del Mediterraneo che era stata aperta a Trapani a cura del famoso farmacista Garaffa. E convinsi anche mia sorella che mi diceva <e che facciamo quando riapre l’albergo?>. <Poi si vidi>, le rispondevo. Ho avuto il piacere di avere Mattarella come professore di diritto costituzionale per un anno, mi pigliai un bellu trenta e lode… Da quel balcone (siamo in piazza Madrice a Favignana) parlò il fratello di Mattarella, Santi, poco prima di essere ammazzato. C’erano le elezioni a Favignana e lui venne a fare un comizio per il sindaco in lista di allora. Poi l’ammazzarono.
Falcone era invece nostro cliente al ristorante, un buongustaio. Diventò il mio professore di diritto penale e quindi abbiamo rinforzato l’amicizia tanto che una volta io, mia sorella e altre tre ragazze del corso preparammo una cena per lui e Rita Bonnici, la prima moglie. Amava il buon cibo…”

– Credi che la tonnara a Favignana possa tornare attiva?
“ Si calò tonnara qualche anno fa quando si rischiava di perdere per sempre la concessione per la pesca della tonnara fissa che scade al decimo anno di inattività e non è rinnovabile. Castiglione di Trapani con Spataro, ultimo rais, salvarono la tonnara <calando tonnara> e facendo ripartire la concessione. Con 400.000 euro si realizzò qualcosa che sembrava tonnara ma tonnara non era. Si riuscì con quella cifra a calare le reti, a trovare il personale, a mettere su, diciamo, un’opera teatrale, la tonnara turistica. L’anno dopo si provò a fare sul serio con Castiglione che ne avrebbe ricevuto gran lustro: 30/50 tonnellate di tonno locale era un ritorno di immagine notevole per il proprio brand. Così il comune fece richiesta di aumento quote alla comunità europea. Le quote aumentano ma finirono tutte in Sardegna e Castiglione rinunciò cedendo le sue quote, 14 tonnellate appena. Ci ha riprovato quest’anno ma il risultato non è stato diverso. Non è semplice anche perché in tonnara si fa una pesca selettiva e rispettosa, i pesci piccoli vengono rilasciati e di pesci ne arrivano pochi e di taglia piccola. Il resto viene acchiappato con le tonnare volanti. Le reti di circuizioni prendono tutto, indiscriminatamente. Come vedi torniamo a parlare di sostenibilità…”
Le foto di questa intervista sono tutte prese dal web. Alla richiesta di una foto Maria risponde: “Mamma mia, la foto no!”. Una voce forte che si è imposta e continua a farlo, un animo schivo che non ama i riflettori. Una ragazzina dallo sguardo fiero di 83 anni a cui dico semplicemente “grazie”.
Mi saluta dicendo: “Una ventenne chi m’havi a fari?”.
Benedetta Manganaro